Intorno alla parity rate ci si accapiglia da anni. Fra denunce, esposti e sentenze, non si contano più i casi sollevati davanti alle autorità per la concorrenza di mezzo mondo da associazioni di albergatori e operatori turistici vari. Gli ultimi casi arrivano dalla Gran Bretagna e dall’Australia.
Nel frattempo, le commissioni imposte dalle OTA sono sempre più alte. Ma c’è chi dice che va tutto bene così. Sarà vero?
Molti nel mercato travel credono che l’espressione politicamente corretta parity rate – ossia la pratica di applicare lo stesso prezzo delle camere in tutti i canali di vendita e punire chi infrange la regola – è, a dirla tutta, un modo come un altro per fissare le tariffe, cosa illegale pressoché ovunque.
In sostanza, le OTA sfruttano il loro potere di mercato per tenere alla larga ogni possibile competitor intenzionato a vendere lo stesso prodotto a prezzi minori – trattasi di comportamento anti-concorrenziale.
Eppure i governi di tutto il mondo continuano a ignorare il problema. Due sentenze scritte di recente da altrettante autorità per la concorrenza nel mercato dimostrano che giungla sia diventata quella dei prezzi e delle vendite delle camere – di sentenze simili in merito alla parity rate avevamo già parlato sia nel 2012 che nel 2013.
La prima sentenza riguarda il buon esito dell’azione legale intentata da Skyscanner contro Expedia e Booking.com. I due portali avevano allacciato una partnership con InterContinental Hotels Group per offrire tariffe esclusive a un gruppo di viaggiatori selezionati. L’autorità britannica per la concorrenza nel mercato ha stabilito che si tratta di una pratica anti-concorrenziale. Il motivo è presto detto. Le tariffe agevolate non erano disponibili per chiunque – ne erano esclusi anche i clienti di Skyscanner. Non è tutto. La sentenza dice anche che la partnership fra le due OTA e InterContinental Hotels Group promuoveva, di fatto, la pratica della parity rate. Se i consumatori trovano le stesse tariffe in qualunque sito, si può ancora parlare di concorrenza?
Pochi giorni fa, poi, la Australian Competition and Consumer Commission (ACCC), l’autorità australiana per la concorrenza nel mercato, ha dato il via libera a Expedia per l’acquisto del portale leader locale Wotif.com. La notizia ha scatenato l’ira dell’industria alberghiera australiana. Da più parti si crede che la nuova alleanza ridurrebbe la concorrenza e porterebbe a un aumento delle commissioni corrisposte dagli albergatori alle OTA. In sostanza, la commissione applicata da Wotif finora è stata del 12%. Quella d Expedia è assai più elevata. Per questo motivo, i timori degli albergatori sono fondati. Tuttavia, e commissioni di Wotif devono crescere per dar modo alla compagnia di competere ad armi pari con tutti i concorrenti che da qualche anno a questa parte hanno aggredito il mercato australiano. Questa è la realtà dei fatti.
Il portavoce degli albergatori australiani Bradley Woods ha espresso i timori della categoria, non ultimo quello per la parity rate. “Siamo consapevoli dell’emergenza rappresentata dalla parity rate. Abbiamo già sollevato il problema presso l’ACCC e lo affronteremo con la stessa autorità e con il governo del Commonwealth, in quanto la parità tariffaria è chiaramente contraria ai principi della concorrenza in vigore in Australia”, ha fatto sapere Woods.
La partita è tutta aperta e da seguire con attenzione. L’autorità australiana potrebbe anche stabilire che i fornitori, ossia gli albergatori, non hanno il diritto di controllare i prezzi delle loro camere vendute sulle OTA. Perché sarebbe anti-concorrenziale.
“Il fornitore non ha il monopolio sul prezzo”, decretò già nel 2012 John Guscic, manager del portale Webjet.
“Vendiamo le camere con i prezzi che ci sembrano più adeguati. Scegliamo noi le tariffe. Questa è competizione”. Chi la spunterà?
Liberamene tratto da Price Parity or Price Fixing? Whatever the answer Governments are avoiding the issue, di Martin Kelly